mercoledì 26 ottobre 2011

Claudio Di scalzo: Autofrancobollo per Luigia Zamorano

 







Claudio Di Scalzo


AUTOFRANCOBOLLO PER LUIGIA ZAMORANO


Mi sono disegnato un francobollo dove ballo allegro nella notte alpina. Immaginando che la busta è il rettangolo di prato dove sotto le stelle danzo, lo affranco e te lo spedisco. E’ una bella nottata di luna piena e se la mia testa riceve qualche morsicatura sulle tempie perché il Maestro di ballo adotta questo metodo, non me ne faccio un problema, capisco che mi sta dando ritmo nel ciondolare. In più son contento perché in tanti si son fatti l’autoritratto da spedire alla propria Dama, ma all’Autofrancobollo nessuno ci aveva pensato.
Spero tanto, Luigia, che questa busta, l’Autofrancobollo, e la didascalia che dice: C’era una volta il mio sentimento per te in ogni dove/e ancora ci sarà se un francobollo lo smuove/… ti suggerisca una bella risata cristallina, nella Terra della Regina Maud, prima di addormentarti. Io rimango qui a ballare fino verso le 3,00, fino a che non crollo, e la musica Funky Jazz di Stanley Clarke aiuta a non fermarmi, a respirare una qual certa libertà nei movimenti e nello sterno. Buonanotte mio gioiello nel ghiaccio.


MEZZANOTTE E MEZZO

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Settembre-Ottobre on line...
 
DIREZIONE
 
Di Scalzo
 
 
 

martedì 4 ottobre 2011

Franco Battiato: Shakleton. Canzone per Luigia Zamorano da L'esploratore

 





Dedico 

"Shakleton

di Franco Battiato 

a Luigia Zamorano.




Ogni prigionia tra i ghiacci

può essere vinta dal coraggio di chi resiste alla morsa del gelo

da chi porta soccorso con occhi contenenti pane

 e mollica dell'assoluta promessa.

Prima che posso, Luigia, vedrai la mia nave all'orizzonte.



L'Esploratore per Luigia

Ottobre 2011




DIREZIONE

Claudio Di Scalzo









 

mercoledì 28 settembre 2011

Claudio Di Scalzo: Il francobollo bianco per Luigia Zamorano

 








NEL BIANCO ASSOLUTO


Il francobollo di stamani all’alba, Luigia, ha il colore bianco avorio del tuo incarnato, ci poso il mio viso notturno e se non mi vedi è perché nell’architettura di questa nostra prigionia, da lontano l’uno nell’altro, è anche concepita la sparizione per sventata purezza.

Ma cosa ci fanno in giro, su questo oceano elettronico, due come noi?, due farfallini bianchi in notte spessa, tu nel dolore manto spinoso della veglia, io nel bianco verso la tua fronte accecato dal rimpianto?

Polo australe giglio d’albume sul tuo sospiro m’avvolge, e ti vedo, amore mio, e non siamo visti, e il piccolo francobollo immaginiamo, pensiamolo assieme!, che un dio cortese verso la nostra tragica storia lo legga tanto da vederci il mio arrivo, il nostro abbraccio, la salvezza.


CLAUDIO per LUIGIA



 

domenica 18 settembre 2011

U2: With Or Without You. A Luigia Zamorano. Cura di Claudio Di Scalzo

     






Luigia mia... mi affido alla mia fotografia ed alla traduzione delal canzone per dirti come ti avvicino nella notte che viene. Musica e immmagini spero mi consentano, allungandomi fino a che posso, di sfiorare l'ovale del tuo viso porcellana - L'Esploratore




U2 - WITH OR WITHOUT YOU 



Con o Senza Te
Guarda la pietra nei tuoi occhi
Guarda la spina nel tuo fianco
Io ti aspetto

Con te o senza di te
Con te o senza di te

Attraverso la tempesta noi raggiungiamo la riva
Tu dai tutto ma io voglio di più
e ti sto aspettando

Con te o senza di te
con te o senza di te
Io non posso vivere
Con te o senza di te

E tu ti sveli
E tu ti sveli

E tu
E tu
E tu ti sveli

Le mie mani sono congiunte
Il mio corpo ferito, lei mi ha con
nulla da vincere e
niente da perdere

E tu ti sveli
E tu ti sveli

E tu
E tu
E tu ti sveli

Con te o senza di te
con te o senza di te
Io non posso vivere
Con te o senza di te





mercoledì 14 settembre 2011

Claudio Di Scalzo: La musica di Brian Jones per Luigia Zamorano


 





Claudio Di Scalzo
 
BRIAN JONES PER SERATA ANNERITA
 
Serata da cave sul pavimento, Luigia mia, e fogli e carte e disegni umidi sembrano un lazzaretto. Vento da bestie sulle tegole e sbanda il consueto verde addomesticato nel giardino. Stupefatto per come sotto questo cielo di faisite i pensieri vanno a capriole, mi sono visto addolorato per Brian Jones dei Rolling Stones che non avrebbe più suonato e che imbottito e bolso di alcool e droghe galleggiava sopra un piscina. Il dandy del rock britannico! A ventisette anni. Nel 1969. Questo biglietto è veramente tetro, e me ne scuso, Luigia, ma stasera di meglio non potevo. E se ti porta ancor più freddo non l'ascoltare. Anch'io batto i denti. Tuo Accio



BRIAN JONES

SAINT OF ME
    
LADY JANE




  

mercoledì 31 agosto 2011

Claudio Di Scalzo: Hermann Scherchen prova con l’orchestra Bach. Musica per Luigia Zamorano



                                                                          Mar di Ross
  








Claudio Di Scalzo


SCHERCHEN E BACH PER LUIGIA ZAMORANO


Luigia mia, dolce Luigia… Ti propongo di ascoltare Bach. Bach con attorno glaciale freddo con davanti il mare di Ross. E' possibile? In questo contrasto confido su quanto la musica di Bach può rigenerare nel tuo minuto profilo biondo. Però deve essere un Bach eseguito da un direttore d’orchestra che prima dell’esecuzione abbia trasfigurato, con potenza didattica e taumaturgica, un gruppo di orchestrali in una specie di slancio verso l’unicità d’immagine: la massima che può avere il suono, come diceva lui, “quando prende vita”. Non può che essere Hermann Scherchen. Il robusto, infaticabile, travolgente Scherchen. Nella mia ricerca, di una sorta di canone, a me adatto, dei grandi direttori, lui lo pongo tra i primi posti. E questo accade perché ascoltai, su CD, era il 1990, le sue prove della Quinta di Beethoven.
In questo video, l’anziano leone, col suo classico golf chiaro, col suo vocione, insegna come si suona Bach. Voglia che questa musica accompagni il palpitare, folle?, della mia carezza da qui dove ti sto raggiungendo. Il tumulto degli strumenti che seguono la logica del direttore, la forza della ragione e della poesia interpretativa che conduce ogni nota nel suo adatto fluire, sia simile al tuo respiro diventato più quieto. Tuo Accio



SCHERCHEN E BACH


     
Hermann Scherchen dirige Bach -Prelude and Fuge inB 3/



All’inesauribile Hermann Scherchen (Berlino 1891 - Firenze 1966) si fermò il cuore sul palco, provando Malipiero. Era uno dei pochi a dirigere opere dei compositori del ‘900. Schömberg, Hindemith, Milhaud, Henze, Messiaen, Varèse, Xenakis. Alcuni poco eseguiti anche oggi. Amò l’avanguardia, le nuove tecniche d’incisione e di diffusione del suono, e fu arditamente di sinistra in tempi cupi che schiacciavano le coscienze tra blocchi contrapposti d’ideologie. Quando ho bisogno di ritrovare energie sento le sue prove della Quinta di Beethoven, poi la sua direzione.




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DIREZIONE
Claudio Di Scalzo 
 
 
 
 
 

domenica 1 maggio 2011

Vademecum dell’indice di Tellus base per Tellusfolio di Claudio Di Scalzo (2005-2009)

   

                                    CDS: Copertina per TELLUS n. 3, Le Poetiche dell'abitare


VADEMECUM DELL'INDICE DI TELLUS

Scelta ragionata dall’1 al 30 della rivista prima trimestrale e poi Annuario TELLUS, dal 1990 al 2009 di autori e testi. Credo sia utile per i lettori-navigatori di TELLUSFOGLIO e domani del magazine OLANDESE VOLANTE conoscere (mettendo in mostra l’indice di TELLUS ) alcuni autori che hanno collaborato a Tellus con saggi significativi e con notevoli prove letterarie per consentire “un premio ch’era follia sperar”. E cioè inventare, in PROVINCIA, un progetto culturale ed editoriale che definisse eventi nella cultura, nella letteratura e nella filosofia nell’ultimo decennio del Novecento per poi scollinare nel nuovo secolo.

Nel 2003 ho trasformato la rivista in Annuario di 250 pagine e fondato e inventato nel 2005, da TELLUS, il giornale telematico TELLUSfolio (2005-2009). 

Ogni scritto di Tellus verrà ri-pubblicato sull’Olandese Volante, in antologie su carta e on line 



(1990-2001) (Direzione Marco Baldino)

Tellus 1, “L’uso del passato”, gennaio-aprile 1990 (anche in Tellusfolio, Dall’indice di Tellus)
Marco Baldino, L’uso del passato
Claudio Di Scalzo, Illusio in montagna
Uso filosofico e letterario del passato (nel grembo della montagna) nei due fondatori della rivista.

Tellus 2, “Il sacro macello”, maggio agosto 1990
Il massacro dei protestanti nel 1620 in Valtellina “letto” da Marco Baldino, Saverio Xeres, Guglielmo Scaramellini, Attilio Agnoletto, Abramo Levi, M.Mandelli.

Tellus 3, “Lo straniero”, 1990"
Marco Baldino, Appartenenza e spaesamento
Claudio Di Scalzo, Il forestiero
Breve saggio sulla montagna che può generare anche angoscia e sul Perturbante di Freud.
Geog Trakl a Morbegno: accanto alla biografia accertata quella immaginaria in un racconto breve.

Tellus 4, “Le poetiche dell’abitare”, gennaio-aprile 1991
Giampiero Neri, Senza Titolo
Salvatore Viale, Ricordi d’un viaggio in una parte della Svizzera. Lettera a mio fratello. 1861
Quando il poeta Giampiero Neri era un “maestro sconosciuto”, la rivista Tellus e Daniela Marcheschi ne custodivano l’alto esempio presentando suoi inediti.

Lo scrittore di Bastia (qui nacque nel 1787 e qui morì nel 1861) è presentato da Daniela Marcheschi che propone una diversa lettura dei “minori” della letteratura italiana.
Tellus 5, “Idea della Rezia”, maggio-agosto 1991
Claudio Di Scalzo, Bestiadiario
Aldo Bonomi, La città retica
Giovanni Bertacchi, Un colloquio col portiere di Casa Leopardi, 1927. Con nota di C.A. Madrignani: “Un artista per le vie d’Italia”.
Anticipazione di un libro su "Animali e altri animali" poi diventato libro molto nascosto e ferino.
Interessante saggio di Aldo Bonomi, valtellinese, poi diventato uno dei maggiori sociologi italiani su cosa significhi abitare nelle Alpi.
Interessante, e dimenticato, racconto di viaggio di Giovanni Bertacchi, comparso sulla rivista del Touring Club: Vie d’Italia. In Tellus 27, “Dalla Torre pendente alle Alpi” (2006) il viaggio di Bertacchi a Viareggio in cerca del mito di Shelley, “Un alpino a Viareggio”.

Tellus 6, “Metropoli e Museo”, gennaio-aprile 1992
Pier Luigi Cervellati,La città delle Muse
W. Hildescheimer, Non più scrivere
Claudio Di Scalzo, Lettera di fiato, lettera di luce
Carlos Drummond De Andrade, Sei poesie tradotte da Antonio Tabucchi
Poesie tradotte per Tellus dall’autore del Sostiene Pereira. Il biografo di Mozart sul mestiere di scrivere. Due lettere, due scaglie di biografia immaginaria per Campana e Hölderlin.

Tellus 7, “Il tramonto dell’uomo selvatico”, ottobre 1992
Ludwing Hohl, La nostra vita è breve
Giampiero Comolli, Il maestro selvatico. Racconto
Athos Bigongiali, Il raggio verde. Racconto
Claudio Di Scalzo, Fuoriquadro. Racconto
Quattro racconti di scrittori contemporanei che interpretano la natura e la selvaticheria.

Tellus 8, “Perché restiamo in provincia?”, dicembre 1992
Martin Heidegger, Perché restiamo in provincia
Marco Baldino, La provincia heideggeriana
Giovanni Bertacchi, Gentile signorina. Lettera su cartolina e poesia
Aldo Bonomi, Esodo e nuova socialità
Claudio Di Scalzo, Due righi sulla fronte. Racconto dedicato a Giovanni Bertacchi
Testo emblematico, seppur breve, di Heidegger, inedito, che viene messo in esergo alla riflessione di Tellus su cosa significhi fare filosofia e arte e letteratura in provincia nel tardo Novecento.
Di Giovanni Bertacchi viene pubblicata una cartolina inedita a Clara Friedmann e una poesia dispersa sempre indirizzata alla giovane corrispondente del poeta. Bertacchi era molto legato alla madre della studentessa: Teresita Friedmann. Il racconto di Claudio Di Scalzo rende protagonista Bertacchi e Clara Friedmann in una storia che lambisce la biografia immaginaria.
Le foto mai pubblicate sono dell’archivio di Tellus.

Tellus 9, “Oltre la linea. Il mito della frontiera”, maggio 1993
Claudio Magris, La caduta del cosmopolitismo. Intervista a cura di Khlaled Fouad Allam
Jean-Luc Nancy, Alla frontiera, figure e colori
Conrad Ferdinand Meyer, Jürg Jenatsch, Una storia dei Grigioni (1876)
Grytzko Mascioni, All’antica trattoria “La frontiera”. Racconto
Vladimir Jankélévitch, Il rumore del silenzio. Intervista a cura di Béatrice Berlowitz
Con questo tema la rivista coinvolse autori che scrissero e anticiparono in racconti e interviste i loro futuri libri sull’avanti e indietro in forma di viaggio e gli sviluppi delle loro filosofie e poetiche.
Compare anche il sesto capitolo di uno scrittore svizzero come Meyer (1825-1898) che nel suo romanzo storico parla diffusamente di Morbegno e della Valtellina. Dai tempi in cui comparve nella collana Bur della Rizzoli se ne era persa notizia in Italia.

Tellus 10, “Acque”, settembre 1993
Luisa Bonesio, Passare le acque
Gian Piero Bona, Il marinaio di Pola
Elemire Zolla, La montagna
Preziosa riflessione narrativa sull’acqua che rampolla dai monti che fluidifica il linguaggio.

Tellus 11, “L’utopia dialettale”, dicembre 1993
Martin Heidegger, La lingua di Johann Peter Hebel
Georges Perec, L’arte e la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento. Prima parte
Numero sul dialetto trattato dal punto di vista della geofilosofia. Sperimentalismo e fine ironia nel racconto inedito in Italia dell’inventore della letteratura combinatoria.

Tellus 12, “Identità d’Europa”, aprile 1994
Jacques Derrida, Nel nome di Europa
Martin Heidegger, L’Europa e la filosofia tedesca
Jean-Luc Nancy, Al di là dell’Europa, Euryopa
Georg Simmel, L’idea di Europa
Emilio Reich, Psicologia delle nazioni slave (1904)
Etienne Balibar, Quali frontiere per l’Europa
Caterina Resta, Finis Europae
Marco Baldino, Particolarismo ed ecumenismo
Georges Perec, L’arte e la maniera di abbordare il proprio capoufficio per chiedergli un aumento. Seconda parte
Uno dei numeri di Tellus che raccoglie le voci più interessanti sull’Europa che fu, che è, che verrà.

Tellus 13, “Oriente Occidente, immagini della natura”, settembre 1994
Luisa Bonesio, La frontiera verticale
Gian Piero Bona, I cocci di Saffo
Johann Georg Hamann, Aestetica in nuce (1762)
La natura che si specchia nel pensiero che fumiga da secoli dall’oriente e dall’occidente.

Tellus 14, “Malattia e destino”, gennaio 1995
Claudio Risé, La perdita dell’identificazione etnica e le sue patologie
Barbara Paltenghi, Luoghi del risanamento. (Il canton Ticino)
Martin Schwind, Senso ed esperienza del paesaggio (1950)
Andrea Zanzotto, Due poesie inedite
Jacques Derrida, Letterature dislocate
Marco Baldino, Destra e sinistra
La malattia che s’incrocia con il destino in uno schiudente spettro economico e psicologico e letterario.

Tellus 15, “Inventare le Alpi”, luglio 1995
Francesco Fedele, Inventare le Alpi, antichi abitanti, moderne tecnologie
Johann J. Winckelmann, Osservazioni sull’architettura degli antichi (1762)
Roberta Monticelli, Spartiacque
Luisa Bonesio, Montsalvat
Le Alpi “mappate, dal basso, dall’alto, scavandoci linguistiche caverne e ospitando anche l’inventore del neoclassicismo.

Tellus 16, “Il pensiero selvatico”, marzo 1996
Luisa Bonesio, I poteri della selva
Caterina Resta, Ernst Jünger: passare al bosco
Marco Baldino, Heidegger e la meditazione del margine contadino
Ludwig Klages, Goethe come fenomenologo (1932)
Marco Baldino, Deleuze, anarca e geofilosofo
Uno dei numeri di Tellus con snodi teoretici e letterari su Jünger assolutamente imperdibile.

Tellus 17, “Vie al divino”, dicembre1996
Jean-Luc Nancy, Luoghi divini
René Girard, La fine del sacro
Luisa Bonesio, La rincorsa al divino
Christopher Dawson, Il disgregamento della civiltà europea e i particolarismi religiosi (1943)
Stéphane Mosès, Rosenzweig e la specificità ebraica (in fascicolo supplementare al numero)
I rovelli del sacro e le squame della divinità sparsi in saggi illuminanti. È il caso di affermare.

Tellus 18, “L'Europa che viene Grandi spazi e piccoli popoli”, luglio 1997
Franco Cassano, Paeninsula
Alessandro Fontana, Stato mondiale e dispersione responsabilitaria: il paradosso della sicurezza
Hermann von Keyserling, La condizione ecumenica (1926)
Bernard Poche, Le Alpi, un mondo della frammentazione, un mondo dell'immanenza
Claudio Di Scalzo, Apologhi per la sera muta
Tellus è stata la prima rivista a proporre una rete d’incontri tra autori e terre che li hanno cresciuti.

Tellus 19, “Appartenenze”, dicembre 1997
René Girard, Appartenenze e violenza
Marco Baldino, Noialtri provinciali
Renato Troncon, Il dettaglio
M. Heidegger, I 700 anni di Messkirch
M. Baldino e C. Di Scalzo, Appartenenza nazionale Filosofia e Lettere:
A. Codini (1938); E. Reich (1905); F. Tozzi e Santa Caterina da Siena (1918)
Claudio Di Scalzo, Trittico della rivelazione provinciale.
Daniela Marcheschi, Discorso di Medea e Meditazioni di Giona
Voci che danno appartenenza, silenzi che sradicano, la provincia e i provinciali a fine Novecento.

Tellus 20, “Metafore locali. La cultura dell'autonomia”, maggio 1998)
Ottavio Marzocca, Foucault e la ragione politico-pastorale
Dichiarazione dei Rappresentanti delle Popolazioni Alpine (1943)
Cesare Battisti, La razza montanina (1915)
Rudolf Kassner, L'etica del tappeto (1900)
Claudio Di Scalzo e Piero Chicca, Elenco alfabetico di celebri soprannomi di provincia
Cesare Ruffato, poesie inedite
Questo numero, con i due precedenti (il 18 e il 19), forma un ideale tris sulla condizione tutta europea e regionale degli abitanti che vivono dislocati tra i fiordi della Norvegia e il Partenone. (L'editore riserva un'offerta specialissima per il TRIS: i tre numeri della rivista a soli 10 euro).

Tellus 21, “Epoca della forma”, dicembre 1998
Jacob Taubes, Estetizzazione della verità nella post-storia
Philippe Daverio, L'epoca neopopolare: avanguardia e masse
Marco Baldino, Estetizzazione del mondo e politica della vita
Jean-Luc Nancy, Un souffle, un soffio
Gottfried Benn, Epoca che viene, epoca della "forma", 1934
Francesco Biamonti, Il lato eterno delle cose
Di Scalzo/Marianetti, Critica della ragione provinciale
Il mondo che vive di estetica e la politica che ne fa uso per dominare e modificare l’essere viene trattato in questo numero. Esemplarmente complesso.

Tellus 22, “Sul Liberalismo”, gennaio 2000 (Volume)
Marco Baldino, Liberalismo e geofolosofia
Georges Bataille, La struttura psicologica del fascismo
Gilles Deleuze e Felix Guattari, Capitalismo: un delirio molto speciale
Michel Foucault, Il problema dei rifugiati
Serge Latouche, Il mondo a una dimensione
Tutti parlano di Liberalismo, la Redazione di Tellus ha approfondito la questione di cosa significhi esserlo in un orizzonte dove le ideologie sono paralizzate o morte.

Tellus 23, “Per una filosofia Free-Lance”, giugno 2001 (Volume)
Marco Baldino, il pensiero post-sintetico
Maurizio Zanardi, Filosofia e metropoli
Gilles Deleuze, Filosofia e minorità
Il volume dove compare lo sforzo più completo, teoretico ma anche letterario, di Marco Baldino. Una filosofia Free-lance da offrire e da reiventare.


Direzione Claudio Di Scalzo: Annuario TELLUS dal n. 24-25 al n. 30
(Serie cessata essendosi esaurito il progetto da me ideato di Annuario + Tellusfolio on line)

Annuario Tellus 24-25: “Scritture Celesti. Poesia in cerca di Dio” (Volume)
Claudio Di Scalzo – Alessandro Fo – Marco Cipollini – Giovanni Bertacchi – Alda Merini – Bruno dell’Ava – Caterina Davinio – Marco Baldino.

Annuario Tellus 26: “Vite con ribellioni. Rinomate e sconosciute” (Volume)
Guy de Maupassant – Paolo Fatticcioni – Domenico Guerrazzi – Giovanni Bertacchi – Caterina Davinio – Galleria Peccolo – Anterem – Henri Michaux – Michail bakunin – Maurice Lemaitre – Pinot Gallizio – Gérard Dechamps – Chaissac – Antologia di Giorgio Luzzi

Annuario Tellus 27: “Dalla Torre Pendente alle Alpi. Viaggi e altri viaggi”  (Volume)
Klenze – Hesse – Buchner – Xavier De Maistre – Bertacchi – Fattori – Baudelaire – Mallarmé – Coleridge – Holderlin – Hofmannsthal – Stein – Bigongiali – Borsetti Venier – Baldino – Fatticcioni - Antologia di Gilberto Isella

Annuario Tellus 28: Cattolicesimo nella letteratura italiana nell’arte europea (Volume)
Rebora – Papini – Malvardi – Salvadori – Galgani – caldelli – Bigongiari – Govoni – Tozzi – Scipione – Campana – cardarelli – Barile – Martini – Corazzini – Lisi – Ghiselli – Guidacci – Giovanni XXIII – Ungaretti – Betocchi – Bargellini – Vigolo – Paolo VI – Agostino – Masaccio – Mantegna. Raffaello – Michelangelo – Tintoretto

Annuario Tellus 29: Febbre d’amore. Stedhal + Web (Volume)
Alborghetti, Alivento, Aragon,Basile, Bertacchi, Borsetti Venier – Catullo – Celan – Cerrai – Cipollini – Comoglio – Corbière – Daudet – Ebalginelli – De Libero – Knabberchen – Maupassant – Monti – Neruda – Pagès – Palazzeschi – Parronchi – Pavese – Raboni – saba – Salari – Sarrèra – Shakespeare – Sinisgalli – Wilcock – Stein – Stendhal – Stirner – Vlaminck – Zanobini – Zanzotto.

Annuario Tellus 30: Nomi per 4 stagioni. Dall’illuminismo a Internet Tellusfolio (Volume)
Swift – Voltaire – Fichte – Hoffmann – Grillparzer – Rilke – baldino – Di scalzo – Knabberchen – Zanobini – Stein – Pagès – Aglaia – Ausonio – Valerio Edituo – Catullo – Saffo – Pozzato – Vivaldi – Rachmaninov – Sostakovic – Brahms – Ligeti – Grieg – Pauré – Poulenc – Glinka – Debussy, Battaglia, Zanobini.


Dal 2005 al 2009 la rivista-annuario Tellus ha avuto sviluppo sul giornale on line telematico fondato e diretto da Claudio Di Scalzo che ha diretto anche Tellus. L’archivio di Tellus e i suoi sviluppi si sono trasferiti sul magazine OLANDESE VOLANTE. I weblog “Tutti i figli di Tellus”: Tellusfoglio, Tellus in Love, Compagna Tellus, Vecchiano un paese, ecc ecc hanno tutelato e sviluppato l’esperienza Tellus. )




venerdì 18 marzo 2011

Alfredo e Alfredino Mazzoni: Furbo e più furbo. Poema casaro. Traduzione di Ivagna Lo Cencio.

                                              

                                   Alfredino Mazzoni + furbo dorme beato. Alfredo furbo, che non si vede, dorme nel pelo di capra


UN RICCIOLO DI PECORA NON FA UN MATERASSO FRATELLO MIO

Alfredo con il fratello Alfredino, furbo e + furbo, iniziano qui un poema casaro, in duetto, dedicato al loro duro lavoro sulle vette e alla natura che osservano. La traduzione dal dialetto dei gavèi di Morbegno (Valtellina) è affidato alla traduttrice Ivagna Lo Cencio, della Sorbona di Parigi che stanca di tradurre Camus e Sartre ha optato per la virile prosa dialettale dei fratelli, furbo e + furbo, Mazzoni.

-Un ricciolo di pecora vola sul tratturo, fratello più furbo
-Se fossero un migliaio avremmo il materasso, fratello meno furbo di me

(Traduzione di Ivagna Lo Cencio)






 

martedì 15 marzo 2011

A cura di Claudio Di Scalzo: Scritti di Grytzko Mascioni


               
         Grytzko Mascioni (1936 Tirano - 2003 Nizza) è stato pubblicato sull'annuario Tellus
 "Vite con ribellioni" del 2004 a cura di Gilberto Isella e Claudio Di Scalzo. Il volume è distribuito dall'Editrice Labos di Morbegno.


Inediti di Grytzko Mascioni

Prosegue, con numero progressivo l'Antologia dal giornale telematico TELLUSfolio da me fondato e diretto (2005-2009). Attualmente l'esperienza e la cultura della rivista TELLUS (1990-2009), all'origine del giornale on line TELLUSfolio, prosegue sui weblog TUTTI I FIGLI DI TELLUS: Tellusfoglio, Compagna Tellus, Tellus in Love, Tellus di Valtellina, Manuale di classe-Manuale Tellus (scolastico), Vecchiano un paese. Claudio Di Scalzo discalzo@alice.it

TRENI



La bella casa patrizia che da quattro secoli regge la scagliosa ardesia del tetto, è quella che gli torna solo nei sogni e che lo ha visto nascere e crescere finché caduta in mani altrui si è decomposta nell’insensatezza estetica di chi si è conquistato il diritto di abitarla: declino che gli ricorda la sorte delle città latine percorse nel dissanguato impero da stranite orde aliene, ignare della forma che estrae dalla terra e dall’inanellarsi degli anni un decoro di misura e pudica bellezza, garbatamente funzionale.

Non ha dubbi, è lì che il sonno tanto spesso lo riconduce. E gli succede di salire, in un tremore d’intatta infanzia, le scale che dal primo portano al secondo piano. Gli basta chiudere gli occhi, e eccolo raggiungere con passo lieve, quatto quatto, l’appartamento della zia Maria che per sconosciute ragioni ha rotto i ponti con il resto della famiglia, ma che per lui bambino coltiva un oscuro e vibrante sentimento d’amoroso possesso, la viscerale tenerezza di cui sono capaci solo alcune solitarie donne infeconde che mitologizzano ogni goccia parente del loro sangue. L’affetto che la zia nutre per il nipote, a dispetto del perpetuo litigio in cui vive isolata dai fratelli e dalla cognata, si esprime in ricatti innocenti come quello di custodire un sontuoso trenino elettrico – il lustro locomotore nero, le carrozze verdastre dalle sfavillanti cromature, l’amaranto del wagon-restaurant che esibisce orgogliose scritte dorate – a disposizione esclusiva del bambino ammaliato e al quale nessuno proibisce di visitarla.

Lui può giocarci quanto vuole, ma solo lì, richiamato dall’esca innocente che troneggia al centro della sala dove sovrabbondano altri arcani tesori, i ricordi accumulati da una zitella coltivata che ha girato il mondo e fatto incetta di libri e curiosi souvenirs prima di tornare alla dimora degli avi, della quale possiede cospicua parte. E sul vasto tappeto orientale si dilata un paesaggio in miniatura, una maquette di monti verdebruni solcati da tenebrose gallerie, di foreste d’abeti a specchio di vitrei torrenti e laghi, di linde casette accoccolate a ridosso di agili campanili, di un paesaggio traversato da un viluppo di rotaie che tornano in circolo a mordersi la coda. Il loro corso è segmentato da biancorossi passaggi a livello, scandito da stazioncine civettuole segnalate dal lampeggiare di microscopici semafori. Il passaggio del sibilante convoglio è annunziato da un tinnire di campanella, e la gioia del bambino è al colmo quando può dare il via all’incedere rutilante del trenino, premendo il pulsante magico della messa in moto. Per l’emozione, pare condivida il tremito ansioso che agita le fioriere esposte ai balconi dalle figurine delle agghindate spose dei capostazione che inalberano come altezzosi cimieri i loro berretti rossi.

Poiché padre e madre del bimbo hanno altri pensieri e non soffrono di piccole gelosie, fingono di non vederlo quando sempre più spesso si avvia di soppiatto sulla rampa di scale che porta alle stanze dove, rintanata nel suo malumore, la zia Maria aspetta impaziente la sola visita che sappia ancora, per un momento tenero, regalarle un sorriso, una sembianza d’affetto fedele. E fedelmente, qualche anno più tardi, fatto adolescente, sarà solo lui a visitarla nell’ospedale dove aspetta di morire, a osare una carezza sul viso scavato, a reggere la vista del corpo scheletrito e giallastro divorato da un tumore: ma come languidamente illuminata a ogni apparizione del nipote nella sua agonia disertata da altri conforti. Ma ti piaceva proprio, riesce ancora a dire, muovendo le labbra malate come petali di rose smunte, raggrinzite nella triste parodia di sorriso, quel nostro trenino?

Quanto sarebbe continuato a piacermi, in verità, scribacchia soprappensiero il vecchio in cui si è trasformato il bambino di un tempo, il costoso trastullo che includeva, con la candida offerta di un fantasioso gioco, il fascino segreto di una piccola trasgressione puerile. Ma forse più, l’implicito invito a uno sconfinato viaggiare, a un’eterna partenza verso ignote lande così difficili da immaginare nel grigio paese natale, aggrappato alla costa di valle in un saliscendi di contrade sfiorate dall’alto incombere di selve e vigneti. Destinato anch’esso a svanire nel sussulto impercettibile che frena ogni corsa e scorcia, con la vita che deraglia nel vuoto, il territorio dischiuso al proporsi dell’alitante avventura che ci richiama altrove. Fin dal primo farsi giorno nella mente stupita d’essere pervenuta, non si sa perché, a abitare nella luce del tempo che ci forgia attorno una dubbia idea di realtà.

Ora se appena la osservo, riconosco nella mia mano scarnita che poggia sul foglio che ho davanti, quella della zia Maria che d’un tratto penzolò a lato del letto, allentata la presa nervosa delle dita a una piega del lenzuolo che ne velava lo sfacelo. E sono io a trattenere nel fondo della gola inasprita da sentori amarognoli, il quasi inaudibile singulto che troncò a mezzo il congedo della donna morente. La mia buona zia fu troppo presto l’inerte mucchietto d’ossa che professionali infermiere composero nello stupore attonito della vita svolata. Le palpebre abbassate sull’occhio itterico avevano occultato per sempre la fissità sgomenta dell’ultimo sguardo che mi resta dentro come una lugubre fotografia, impressa nella retina scalfita dal suo enigma feroce. E mi chiedo soltanto, tanti decenni dopo, dove sia mai finito il treno lucente che mi invade ancora la fantasia, mentre mi affatico a dare una forma accettabile alla sagoma della mia esistenza disfatta, prossima alla cancellazione: sebbene le paia d’essere ancora calata nel presente risuscitato della memoria, al quale - à bout de souffle - si ostina a ridare colore. Come il sangue di Odìsseo, offerto nell’Ade alle gote sfiorite dei defunti riconferiva loro un effimero rossore di vita. Destinato a scomparire nell’area di demolizione della ferraglia della contingenza, di quel giocattolo ferroviario era sopravvissuto a lungo solo lo stimolo a un moto perpetuo, la fascinazione che si era rinnovava a ogni nuova stazione ferroviaria varcata: almeno sino al giorno che il sopraggiunto degrado del costume collettivo le trasformò tanto da far loro accogliere la ressa di maleodoranti corti dei miracoli, il losco groviglio stanziale di figure che trasudano subdola aggressività o malore da fame o astinenza. Ma come dimenticare che prima della caduta nel pantano di tanta vergogna, quelle stazioni erano state solo ciò che ci si aspettava fossero, le accoglienti dimore urbane dei treni. E anche, certo, del loro mito: start di mobili, inesauribili avventure…

Di lì si era mosso il desiderio precoce del ragazzo di scoprire stupefacenti mete, coltivato sulle carte geografiche percorse dall’occhio a suo tempo risvegliato nella sua golosa curiosità dall’elegante trenino elettrico della zia Maria: ma presto alimentata da esperienze di segno malinconicamente opposto. La prima è ancora grata a una meraviglia d’infanzia, è l’elevarsi circolare e idillico delle carrozze scarlatte delle Ferrovie Retiche che risalgono dalla verde piana su su per boschi che alla fine diradano nello splendore accecante dei ghiacciai del Bernina per ricadere nello smeraldino incanto d’Engadina; ma a nero contrasto, ecco l’ansimante sferragliare lungo l’ultimo tratto del treno che rimonta la Valtellina e s’arresta fra i campi alle omicide picchiate dell’aviazione alleata, che negli ultimi giorni di guerra mitraglia radente le sperdute formiche dei viaggiatori, lesti a rotolare in cerca di salvezza giù per le scarpate e i terrapieni che sostengono il serpeggiare dei binari a scartamento ridotto. Non sono che le più antiche tracce che lascia dietro di sé l’andare per ferrovia, i prodromi di un intrìco di strade ferrate che si intersecano nel memorabile labirinto geografico nel quale l’uomo s’aggira e avrebbe finito per dibattersi sempre più debolmente. Quasi cercasse una sortita dal carcere che segregava il suo connaturato bisogno di trovare una sede adatta all’esaurirsi del sentimento di precarietà che insidiandolo lo sospingeva a un inesauribile divagare nei meandri terragni che volta a volta provvisoriamente, illusoriamente, lo ospitavano. Che gli faceva ripetutamente escogitare la fatua novità di inediti percorsi, mentre indagava oltre la trasparenza dei finestrini campagne abbagliate di sole, mari accesi dalla porpora dei tramonti, cieli nei quali sta sospeso e oscilla stregonesco il punto interrogativo di uno spicchio di luna.

L’uomo rivive l’ansia sfrenata che lo avrebbe indotto a munirsi di una scorta di biglietti che immancabilmente ammutolivano di stupore i controllori costretti a verificare la validità di documenti rilasciati per l’uso di vagoni letto che solcavano l’intera Europa, di rapidi e super-rapidi scagliati da una capitale all’altra, di accelerati che si insinuavano rantolando nel cul-de-sac di valli sprofondate fra ruderi di castellazzi feudali e selve di querce e castagni per sfociare fra i silenziosi abituri che si sporgono sul sagrato di chiesette disertate da officianti e fedeli.


La Svezia giace sotto impervi cumuli di neve, per interminabili ore non resta negli occhi che il suo accecante bagliore. Già disfatte, le luci medievali di Gamla Stan fingendo infantili allegrie celano l’inveterata pena dei cuori del nord, il vento d’angoscia che fischia nelle foreste intirizzite e penetra nel tepore delle case dove si consumano insani tormenti d’amore per chi reca dal sud la giovane vitalità che ignora la vertigine religiosa delle superstizioni vichinghe: mistura di velleità redentrici e dell’egoismo esistenziale che incancrena la passione erotica vissuta nella pretesa di eterni, sublimati possessi. Vade retro, mormora l’uomo cui piacerebbe cancellare in fretta la plumbea esperienza di quella e altre voraci smanie, guiderdone di infausti viaggi; e il treno riparte e imbarca la delusione per le impossibili nozze europee fra la letizia pagana che il Mediterraneo festeggia persino al colmo delle sue ricorrenti ecatombi, e l’istinto antartico, che mimetizza invano viscerali pulsioni guerriere traducendole in ebbro bisogno di assoluto. La bella dimora che sorge fuori Stoccolma come un nido fatato nei giardini reali di Solna, dove la lattea notte estiva posa sul viso dei dialoganti un sudario di rugiadosa tristezza, s’incendia all’improvviso raptus della pallida signora educata all’arte e all’esercizio del pensiero: la rivede brandire minacciosi candelabri e scatenare un incendio nel quale vorrebbe ardere, come in un rogo sacrificale, persino il suo idoleggiato Minotauro di Picasso. Lei lo ha infatti studiosamente interpellato investendolo del ruolo di un’arcaica divinità, pronuba di sponsali che recano impresso il sigillo di un odiosamato amplesso greco-latino di dio e animale: ma l’oracolo le ha opposto solo un disarmante silenzio.

L’episodio lascia il segno di una piaga, ma ormai oltre i vetri del treno incrostato di ghiaccio, nel quale l’uomo si è rifugiato in fuga, c’è solo l’ostile monte di neve che attarda il viaggio alle ferraglie mercantili che ingombrano il porto d’Amburgo, alla malinconia teutonica delle campagne alemanniche, alla frontiera elvetica di Basilea. E più oltre, all’itinerario finalmente italiano che offre squarci di ridente mare dalla Maremma alla Calabria, fino a esaurirsi sul ferry-boat che tra Scilla e Cariddi parla di vive sirene che sguazzano smemorate e amorose anche sul ciglio della morte o di morte sirene che in un immortale oltremondo non cessano di ricamare cantabili inni alla vita.

La terra brulla di Sicilia è incisa dai solchi delle strade ferrate e il cuore pulsa all’unisono con l’ansito metallico di un treno che torna a promettere al desiderio rigenerato del viaggiatore romantiche intese, disvelate mirabilia, numinose epifanie. Dalle falde del Monte Pellegrino alle palme di Taormina, è un germinare di palazzi normanni, di scheletrite colonne elleniche, di infauste architetture turistiche che pietosi ciuffi di zagare celano alla vista infastidita, racconsolata solo dal mostrarsi della prossima azzurrità del mare. Ma già il viaggio risale la penisola, ritenta lo smarrimento dell’occhio febbrile della tisi che affanna lo sterno magro delle ragazze viennesi, perfette eredi delle modelle ritratte dall’affamato struggimento di Egon Schiele: ma solo per ribadire che le carrozze ferroviarie sono gabbie semoventi in cui continua a palpitare e scarruffarsi l’uccello della sopravvissuta fantasia messa in agitazione millanta anni fa da uno smarrito giocattolo d’infanzia.

L’uomo scrive: adesso che di tutti gli orari ferroviari mi sono liberato, che non mi curo più di precipitose coincidenze, che non ho più valige da colmare per intraprendere i viaggi che per quanto lontano andassi mi riportavano inesorabili al punto di partenza, sul personaggio di carne e sangue cui la memoria affida il compito della ricostruzione della realtà preterita, cala un velo di nebbia. E’ solo un fantasma che sa la tachicardia dell’aller-retour Francoforte-Berlino sotto la minaccia delle pattuglie armate della repubblica rossa in caccia di clandestini, ai giorni del muro al quale sarebbe poi bastata una notte di ubriaca illusione per frantumarsi, convincendo il mondo che l’idolo in pezzi avrebbe scongiurato per sempre i rigurgiti dell’odio che alimenta la stoltezza umana. E’ solo nebbia la Gare du Nord di dove si parte per introdursi nel caos esaltato della swinging London o la Gare de Lyon che ammannisce tra argenterie e affreschi Belle Epoque le ostriche Belon che poco dopo deborderanno dai piatti del Café de Turin al limite del Vieux Nice. Ancora nebbia avvolge il desolato periplo del lago Balaton che accompagna il tragitto da Zagabria a Budapest, dove la Pannonia sa dell’Asia il ventoso sospiro allarmante….

Ma la penna è stanca di graffiare il foglio che accoglie il cruciverba degli inutili giochi tentati dalla vita itinerante dello scrivano che si accorge troppo tardi di avere veramente amato un solo treno e tutta la fragile virtualità che includeva, il dono delle ore immaginose che la zia Maria riservava, nel suo mite sotterfugio, ai sospirati incontri con il bambino che nel sobbalzare del petto prendeva a ospitare l’idea di un’infinita avventura. La verità alla fine si sarebbe rivelata altra, fatta com’era di rotaie che riconducono regolarmente spietate alla stazione di partenza. Che a dispetto della letizia di ogni imprevisto incontro, guidano alla fine alla stazione mortuaria che inghiotte e scardina la speranza del viaggio in capo al mondo, dove altri mondi sarebbero stati lì a aspettare altre avventure, altro gioioso stupefatto candore. E su tutti i treni riposa il lino della pietà che un ragazzino ha visto ricadere sul viso spento della zia che forse sapeva, nella preveggente sapienza di un cuore solitario, che il tempo altro regalo non può farci che quello di un sorriso che passa e scompare. Che accende il fuoco di un’ora e subito dopo lo spegne, facendone la cenere di cui è impastata la terra: che anche a percorrerla tutta, alla resa dei conti è solo un grumo d’argilla che si spiaccica e scioglie fra le dita ossute di un vecchio malato.


NAVI



Sa già da tempo del malinconico filo di ansietà che allega i denti al profilarsi lontano di un porto che annuncia la prossima fine di una serena avventura. Sa dello scoramento che invade il petto e offusca la vista quando il viaggio si compie e la parentesi aperta al salpare nell’amnesia di calendari e orologi si va irreparabilmente chiudendo sulla salsa libertà del non-tempo sempre troppo scarsamente abitato. Quando pare che un mesto sipario frusci alle orecchie cui gioverebbe la cera di Odisseo, recludendo nel buio immemoriale del palco del non-essere - dove il sole si spegne, le tempeste tacciono, i delfini dileguano - l’intensità di un sogno disperso dai venti dell’agra condizione terricola: che imperterrita, di vedetta sul molo, attende lo sbarco del transfuga. Ma adesso è ancora mare. La prua della Danae punta alle isole celate oltre il curvo orizzonte cilestre e viola che l’Egeo dispiega nel controvento del meltem, nell’irruzione del fresco etesio che arriccia candide schiume sotto la fiancata da cui si sporge. Affacciato sul vorticare delle onde dal balcone che inorgoglisce la cabina che ha prosciugato lo scarso attivo di un ridicolo conto in banca, è tuttavia lieto dell’ impagabile volo nella casa senza pareti che propizia il colloquio con le origini stesse della vita, col pulsare a rilento del sangue cullato nella matrice amniotica di un ventre che non dice, che non sa, che non spiega, ma induce alla pacata accettazione dell’universale non-senso.

Come una cometa errante a pelo d’acqua, la nave elegante trascina nella sua scia, luminosa del molecolare comporsi e scomporsi d’aliante polvere aurifera, le fuggevoli visioni degli anfratti verdi che si aprono nall’arso dorso di Dalmazia, dello splendore marmoreo del palazzo di Diocleziano che calamita la meraviglia del navigante al largo di Asphalatos. E ancora: ecco l’isolano sentore selvatico dei boschi di Mlijet dove pare che Calipso ritta sulla rena della breve spiaggia agiti con caparbia tenerezza amorosa un fazzoletto di seta estratto dal leggendario scrigno del tempo. Ecco l’abbagliante cinta di mura che chiude le valve maschie sulla femminea armonia di Ragusa. Ma già sotto una sciarpa azzurra che rischiara dall’alto la precipite ferita dell’istmo di Corinto, si naviga nell’intagliata terra rossa del Peloponneso e della Focide nelle cui umide viscere si rintanano da talpe astute le sopravvissute divinità. E lui pensa di onorarle come è giusto lasciandosi prendere dal loro numinoso incanto, grato del benefico influsso di cui si giova la mente liberata di chi va per mare, come il vecchio Solone, solo per diletto e conoscenza…

Dall’invisibile trapezio cui si appendono nell’altalenante dondolio che graffia di ebbri ghirigori il cielo, i gabbiani che inseguono voraci la nave che ospita l’uomo e la donna che gli sta accanto, si illustrano nello scherno bonario del loro schiamazzo gutturale. Per non sentirli più, i due che vivono dimentichi di tutto nel loro viaggio a Citera, lasciano il frizzare dell’aria e si abbandonano alla penombra magica dell’interno, allo smemorante saliscendi del rollìo che agita allacciate ombre danzanti sulla chiazza delle lenzuola scomposte che lo specchio rimanda cortesemente complice, traversato com’è dai brividi di una calda emozione. E poco importa se la nave muta di nome e carenaggio, di palvese e tonnellaggio: il navigare è sempre simile a se stesso e non esaurisce mai la sua potenzialità di rinnovato distacco dal peso greve dei passi cementati alla terra. E’ il dono del mare, la provvida liberazione dall’ingombro di piombo che inclina la testa di chi è costretto a preoccuparsi costantemente di discernere la traccia di un sentiero sicuro, che non nasconda feroci tagliole o le fedifraghe sabbie mobili della routine quotidiana.

Ora è la Romanza che si insinua nelle pieghe della notte e sul ponte, dove l’arancia di una luna sanguigna irrora di mobili squarci di luce le coppe alzate a un intimo brindisi che festeggia la morbida libertà dai lacci degli usati artifici mondani. Dalla sala macchine salgono le fusa dei motori e a babordo trascorrono come assopiti pachidermi biancastri le sagome delle isole, delle Cicladi che disserrano note di flauto e cetra, inaudibili melodie e trilli argentei che si congelano nella danza dei marmi sbiancati che nella loro carie trattengono il messaggio ieratico scampato alla fuga dei secoli. E’ l’eternità del presente che la coppia celebra con il cuore in gola e a fiato sospeso, qui dove è consentita la massima vicinanza alla beatitudine degli immortali svaniti dal giorno della terra, ma silenziosamente trionfanti nelle bende notturne che ne cingono la fronte e i fianchi, nel pulsare delle costellazioni che rigiocano sempre daccapo la stessa partita con le lucenti scaglie riflesse dai flutti che agitano il nero mantello di cui si veste il sonno di Poseidon.

La Dana Corona ripercorre le rotte arcaiche di Enea e Didone, le rotte puniche di Amilcare e Annibale Barca, quelle latine degli Scipioni, le cristiane di Tertulliano e Agostino, le moresche degli invasati saraceni, beduini del mare intenti a sante razzie. Il libro di bordo costantemente aggiornato confonde i suoi caratteri ancora umidi con le iscrizioni della storia, risale da un gorgo d’arrembaggi e fiamme scatenate dagli specchi ustori per trovare infine la pace di un’elegia che minia i più minuscoli trasalimenti del cuore, ignara della dialettica delle sfide e delle risposte delle effimere civiltà affondate nel cimitero marino del Canale di Sicilia. La Kazakstan abbandona gli ormeggi di Crimea e gli scoscesi graniti che proteggono dagli spifferi artici il verde grasso di Yalta, e in uno slancio euforico si lascia felicemente alle spalle le memorie di truci patti, le scalee di Odessa impregnate di sangue e del delirio filmico di Eisenstein, la decadenza pontica dell’ellenico scalo di Mesembria. Varcati gli stretti d’Ellesponto si porta sul vasto dorso la clandestina gaiezza di una fuga d’amore: l’equipaggio assoldato nelle repubbliche sovietiche, in un sopore etilico che ne rallenta il gestire e vela gli occhi chiari sotto le chiome scarruffate, segue apatico le tenerezze degli ospiti che vagano in un sognante idillio tra coperta e sottocoperta, da giorni incuranti delle unghie che la terra scavata e trivellata con lungo affanno aveva spezzato. Né si arresta nel lento volo a ponente che circumnaviga gli ipogei di Malta, che perde a dritta il Porto Grande di Siracusa dove, svaniti i papiri che infiorano gli smeraldini riposi dell’acqua dolce in cui si bagna la ninfa Aretusa, si scorgono ancora nel mareggiare cupo le vene del sangue invano versato dai predaci Ateniesi. Da Ibiza la brezza porta a ardenti folate la disco-music della frivola demenza delle turbe nottambule che indossano cascami di giubbe piratesche sotto il bagliore degli orecchini di strass, gli ombelichi forati da percings assassini. E il bastimento che drizza la prua all’incontro dell’onda che si allunga all’oceano sotto la rocca di Gibilterra, nella strettoia del varco aperto fra le colonne alzate da Eracle smanioso di cogliere i pomi della beatitudine nelle remote Esperidi, già sospira la visione di Madeira. Qui un’acquosa cappa di brume cala dal monte alle nere scogliere laviche, alimentando la turgida vegetazione che protegge languidi riposi e le preziose residenze degli eredi dei conquistadores che nelle cale dell’isola colmavano la cambusa di frutta e verdura prima di levare l’ancora e muovere guerra agli imperi d’oltre Atlantico.

Barra a sud: adesso è l’Eugenio C. a fumigare dei vapori rapiti dal sole al manto surriscaldato dell’universo d’acque in vena di bonaccia. L’arcipelago delle Canarie innalza il crestato tormento del Volcan del Tèide, l’infernale coacervo di brune rocce bruciate, perse in una sconfinata azzurrità: e il pensiero dei meditabondi fuggitivi corre alla meta fatale dell’Ulisse di Dante. Interroga il silenzio degli abissi, le profondità che si chiusero e si chiuderanno implacabili su ogni febbrile indagine del mistero dei mondi, sulla ricerca delle ragioni che possano redimere la vanitosa rincorsa al sapere e al piacere. Sulla sconfitta che ha il muso di sfinge di un imperscrutabile destino. Lenimento all’ansia è il refolo che scompiglia i capelli a chi sta ritto sulla tolda nella tempesta di luci del tramonto, quando il carro d’Apollo s’immerge circonfuso da una raggiera di frecce incendiate nel vuoto di una notte che tutto eguaglia e estingue. La vanità delle ambizioni trova il conforto del nulla che mai è così nulla come nell’ìllimite spazio del fiume Oceano che avvolge il continente dell’umano patire.

E’ la voce di Orfeo che naviga dalle pendici dell’Olimpo alla volta di Lesbo sulla galleggiante carretta del ferry-boat Samphò che evoca, celebrandone il nome, la Signora della Poesia, Saffo dai capelli viola che sulla piccola baia protetta da miti faraglioni della sabbiosa e deserta Eressos attende con una conchiglia all’orecchio che il mormorio delle onde si trasformi nei versi sonanti di un’eterna passione. Sulla barca che inconsapevole rivà sulla scia funesta dell’armada Achea alla volta della prossima città di Priamo destinata al massacro, il melodico placebo torna a ingannare l’attesa della morte e spezia di candide frenesie gli innamorati amplessi rubati alla rovina dei giorni terragni. Con mano cauta la trascrizione dei versi eolici avanza sui fogli vergati dal rito sciamanico che impetra il favore dei venti e scongiura la disastrosa fine degli amori: ma a questo punto, scrollando di dosso le stelle filanti dell’immaginoso carnevale che lo ha inghiottito, lo scrivano si ridesta dalla deriva della mente nei Campi Elisi dell’indicibile. E si prova a inanellare più pronunciabili sillabe: la geografia delle terre emerse ormai si mescola con le sinusoidi delle carte nautiche che al di là della segnalazione di banchi di sabbia e mortiferi scogli, lasciavano campo alla provvisoria dimenticanza dell’astringente obbligatorietà dell’assunzione di modes d’emploi di sopravvivenza alimentare e sociale. Il cabotaggio che illudeva di pause serafiche lo sgranarsi dei giorni non era tanto diverso dallo scarpinare su fredde croste di fango rappreso o su asfalti ammollati dal caldo, se l’approdo o il traguardo era comunque questo, il grigio cubicolo urbano dove si rintana la mia malata miseria, la mia vecchiaia moribonda e affranta. L’attesa avvilita di un epilogo che l’esercizio della memoria non esorcizza. Ma come negarmi la risalita alla luce che promette ogni tuffo in apnea, l’opalescenza subacquea dove risorte torme di pesci inghirlandano danzando l’entronauta sedotto dall’improvvisa assenza di peso? L’antiquata sveglia posata su un canterano pare sospenda il goffo tic-tac se chiudo gli occhi e rivivo i sapori e i sentori di stagioni che trapassate del tutto non sono, finché ne scorgo in una indiscernibile prospettiva la fantasmagorica permanenza. E tanto in quest’oggi precario mi basta, mentre la sera cresce e i rondoni che sfrecciano nell’opaco schermo di cielo che si affaccia alla finestra, a loro volta calano in picchiata là dove so che si nasconde il mare che mi si nega. Mi resta solo ciò che si crede non ci sia più: cos’altro, se non questo invitante profumo di salso, questa litania che mi mareggia canterina nelle orecchie?…

Ma non sempre le vie del mare sono in festa. C’è anche l’Ilijria che bordeggia la Dalmazia lungo lo strazio del litorale in guerra: e il miserando e annoso traghetto pare raccolga il gemito dei profughi che dall’entroterra arpionato dalla ferocia guerriera degli assatanati killers ortodossi, fuggendo si accalcano tra gli spalti di Dubrovnik che risponde come può all’assedio. Alle finestre degli alberghi che benché a loro volta sotto tiro li ospitano, sventolano gli stracci delle camicie e delle sottane messe in salvo mentre dall’alto delle Alpi Dinariche tuonano i cannoni e missili sibilanti armati di fosforo incendiario bruciano il tenero verde del monte che l’affocato scirocco ha risparmiato. Colpi mortali e esatti sfondano i tetti di coppi rossi e sfregiano la bellezza barocca dei palazzi e delle chiese, dei monumenti raccolti intorno allo Stradun colmo di macerie e dove ingabbiato da un assito alzato a patetica difesa dal più amaro oltraggio, la pallida statua del Paladino Orlando cova il muto, resistente culto dell’antica libertà repubblicana. La perigliosa navigazione cui il passeggero si è affidato con la vaga intenzione di recare qualche sollievo a una popolazione inerme e torturata o almeno di raccoglierne sotto dettatura la smarrita testimonianza, gli fa invocare a minima consolazione l’estasi indimenticabile del passaggio dell’equatore a bordo del Repubblica di Venezia. Il sontuoso bateau marchand che per giorni e giorni conosceva solo la sconfinata circonferenza blu dell’Atlantico, raccoglieva al largo dell’America del sud il messaggio rumoroso lanciato dai branchi delle balene che si inseguono e compiacciono della bianca doccia schizzata violenta dagli sfiatatoi: l’aveva vista ricadere in mille gocciole accese dal sole sull’arcuata massa di muscoli che sprofondano in un volteggiante ghiribizzo della coda bilunata, e quella era davvero festa. La grazia allegra di un’autentica pace. Il cuore rallentava i battiti, la pelle imbruniva alla vampa dell’aria tropicale, il tempo era solo un innocuo serpente che si morde la coda. E la capiriña l’inebriante viatico che cancellava i lasciti delle mestizie continentali. La distesa serica su cui s’incideva la ruscellante traccia del mercantile era immagine pertinente di un sogno d’eternità: e solo lo schiamazzo degli adunchi volatili multicolori che d’un tratto avevano annunciato gracchiando la prossimità del continente, lo aveva ricondotto alla malinconia che insegna come nemmeno il mare sia garanzia d’intatta e prolungata felicità. Ma c’è approdo e approdo: quello cui si appresta l’Ilijria nell’incubo delle sparatorie e nel lamento delle vittime ribadisce ancora più duramente l’essenza tragica della terra e della condanna a viverci. Lui aguzza lo sguardo, già gli sfilano accanto le rovine della stazione marittima incendiata che guarda al porto da nere orbite cave e finalmente capisce che rievocare navigazioni felici non serve più a nulla.







martedì 1 febbraio 2011

James Guillaume: La ribellione del giovane scita Michail Bakunin. A cura di Claudio Di Scalzo

   

                                                          Bruno Magoni: Michail Bakunin, 2003



James Guillaume

La ribellione del giovane scita Michail Bakunin

Michail Aleksandrovic¡ Bakunin nacque il 18 maggio 1814 a Priamuchino, villaggio facente parte del distretto di Torjok, nel governatorato di Tver. Suo padre, dopo aver vissuto la giovinezza come segretario d’ambasciata a Firenze e Napoli, ritornò a stabilirsi nei suoi dominii patrimoniali ove sposò, all’età di quaranta anni, una giovane diciottenne della famiglia Muraev. Di idee liberali, fu per molto tempo membro di una delle numerose associazioni di «decabristi»; ma dopo l’avvento al trono di Nicola I, scoraggiato e diventato scettico, si dedicò esclusivamente alla coltivazione delle proprie terre ed alla educazione dei figli.
Michail era, delle cinque sorelle e dei cinque fratelli che ebbe, il primogenito. All’età di quindici anni entrò nella scuola di artiglieria di Pietroburgo, dove passò tre anni, dopo i quali fu mandato come sottotenente prima nel governatorato di Minsk, poi in quello di Grodno, in Polonia.
Era l’indomani del soffocamento sanguinoso dell’insurrezione polacca, e lo spettacolo della Polonia terrorizzata agì potentemente sull’animo del giovane ufficiale e contribuì non poco a inspirargli l’orrore del despotismo.

Dopo due anni di servizio militare, dette le dimissioni (1834) e si recò a Mosca ove passò quasi interamente i sei anni che seguirono. In questa città si dette con ardore allo studio della filosofia. Cominciò coll’appassionarsi alla lettura degli enciclopedisti francesi e, come i suoi amici Nicolaj Stankévic¡ e Bélinski, si entusiasmò per Fichte, del quale tradusse (1836) i Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten. Poi, fu la volta di Hegel, che teneva allora il dominio degli spiriti in Germania: il giovane Bakunin divenne un fervente seguace del sistema hegeliano e si lasciò per qualche tempo abbagliare dalla famosa massima: «Tutto ciò che è reale è razionale» con cui si giustificava l’esistenza di ogni oppressione politica.

Nel 1839, Aleksander Herzen e Nicolaj Ogarev, dopo un esilio di parecchi anni, ritornarono a Mosca ove si incontrarono la prima volta con Bakunin; ma allora le loro idee eran troppo differenti perché potessero andar d’accordo.

Nel 1840, a ventisei anni, Michail Bakunin andò a Pietroburgo e di là a Berlino coll’intenzione di studiare il movimento filosofico tedesco; si proponeva di consacrarsi all’insegnamento, desiderando occupare, un giorno, una cattedra di filosofia o di storia a Mosca. Quando Nicolaj Stankévic¡ morì in Italia – e cioè in quello stesso anno – Bakunin ammetteva ancora la credenza nell’immortalità dell’anima come una dottrina necessaria (lettera a Herzen del 23 ottobre 1840). Ma era venuto il momento in cui doveva compiersi la sua evoluzione intellettuale, e la filosofia di Hegel trasformarsi in lui in una teoria rivoluzionaria. Già Feuerbach aveva dedotto dall’hegelianesimo le conseguenze logiche nel campo religioso; Bakunin doveva operare similmente nel campo politico e sociale. Nel 1842, lascia Berlino per Dresda, ove fa amicizia con Arnold Ruge, che in quella città veniva pubblicando la rivista Deutsche Jahrbücher, nella quale Bakunin pubblicò nell’ottobre, sotto lo pseudonimo di «Jules Elysard», uno studio che giungeva a conclusioni rivoluzionarie. Era intitolato: La Reazione in Germania - frammento, di un francese, e terminava con queste frasi di cui l’ultima è divenuta celebre: «Confidiamo, dunque, nello spirito eterno che distrugge e annienta solo perché è la sorgente impenetrabile ed eternamente creatrice di ogni vita. Il desiderio di distruggere è nello stesso tempo un desiderio di creare».

Herzen, credendo sulle prime che l’articolo fosse realmente opera di un francese, dopo averlo letto, scrisse nel suo diario: «È un appello potente, fermo, trionfante del partito democratico... L’articolo è di una grande importanza. Se i francesi cominciassero a rendere popolare la scienza tedesca – quelli che la comprendono, s’intende – la grande fase dell’azione sarebbe prossima a cominciare». Il poeta Georg Herwegh, autore dei Gedichte eines Lebendigen, essendosi recato a Dresda, dimorò presso Bakunin del quale divenne intimo amico. Fu pure a Dresda che Bakunin fece la conoscenza del musicista Adolf Reichel, che divenne uno dei suoi più fedeli. Ma il governo sassone manifestò ben presto delle intenzioni ostili verso Ruge e i suoi collaboratori; e Bakunin ed Herwegh dovettero, nel gennaio del 1843, lasciare la Sassonia per recarsi insieme a Zurigo. In Svizzera Bakunin passò l’anno 1843; una sua lettera scritta a Ruge dall’isola di Saint Pierre (lago di Bienne) nel maggio dello stesso anno, e pubblicata a Parigi nel 1849 nella rivista Deutscb-französische Jahrbücher, ter mina con questa veemente apostrofe: «La lotta comincia e la nostra causa è sì potente che noi, pochi uomini sparsi e con le mani legate, col nostro solo grido di guerra ispiriamo lo spavento alle migliaia! Avanti con forte animo! Voglio infrangere le vostre catene, o Germani che volete diventar Greci; io, lo Scita. Ma datemi le vostre opere: le farò stampare nell’isola di Rousseau e in lettere di fuoco scriverò una volta ancora nel cielo della storia: Morte ai Persi!».

In Svizzera Bakunin fece la conoscenza dei comunisti tedeschi che facevano capo a Weitling. A Berna, ove passò l’inverno 1843-1844, entrò in relazione con la famiglia Wogt. Uno dei fratelli Wogt, Adolf (più tardi professore alla facoltà di medicina nella Università di Berna), divenne suo amico intimo. Ma, disturbato continuamente dalla polizia svizzera e dietro intimazione dell’ambasciata russa di ritornare in Russia, Bakunin lasciò Berna nel febbraio 1844, andò a Bruxelles e di là a Parigi, ove doveva restare fino al dicembre 1847.


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(da TELLUS 26: "Vite con ribellioni rinomate e sconosciute", 2004. Annuario  a cura di Claudio Di Scalzo. Volume esaurito. Per questo il contenuto verrà tutto ripubblicato on line su questo weblog e negli altri detti TUTTI I FIGLI DI TELLUS)

La rivista-annuario TELLUS  ha terminato la serie diretta da Claudio Di Scalzo con il numero 30 nel 2009.